The Right to Privacy - alla scoperta di un nuovo diritto
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Intro
Oggi vi voglio parlare della pietra miliare nel percorso di riconoscimento della privacy da parte degli ordinamenti moderni. Sto parlando del famosissimo articolo “The Right to Privacy” di Warren e Brandeis, pubblicato nella Harvard Law Review nel lontano 1890. I due autori tentano di rispondere ad un preciso quesito: esiste nell’ordinamento giuridico statunitense un “Right to Privacy” – o diritto alla riservatezza? E se si, quali sono i suoi limiti?
Per affrontare il problema Warren e Brandeis partono da una considerazione: a causa dell’innovazione tecnologica era diventato possibile acquisire informazioni su altre persone, senza che esse prestassero il loro consenso. La fotografia aveva reso possibile paparazzare personaggi famosi anche in situazioni di intimità, che non necessariamente avvenivano in luoghi pubblici. Emerge subito la prima caratteristica della Privacy: la sua nascita e la sua evoluzione sono intrinsecamente legate alle tecnologie disponibili. Ma andiamo avanti.
Warren e Brandeis ragionano sull’evoluzione delle varie tutele offerte dalla legge nel corso della storia. Dapprima la legge difendeva i cittadini solo verso aggressioni fisiche, come era intuibile che fosse in società arcaiche e poco sviluppate, in cui il danno fisico, e cioè quello più evidente, era l’unico ad essere considerato degno di essere risarcito. Successivamente però ci si rese conto che anche i danni morali dovessero essere puniti, e si introdussero norme che miravano proprio a questo, come ad esempio la punizione di condotte ingiuriose o diffamanti. La tutela delle emozioni e dei sentimenti dell’essere umano fu così garantita. Nella visione dei due autori il diritto alla privacy non era altro che il passo successivo di questa evoluzione, e avrebbe protetto chiunque dall’essere disturbato nella sua sfera di riservatezza. Lo chiamano appunto, The right to be let alone.
L’articolo prende poi in considerazione alcuni casi in cui i giudici americani avevano garantito una protezione giuridica a chi veniva leso dalla pubblicazione di immagini, scritti o fotografie che lo ritraevano senza alcun tipo di autorizzazione. Viene evidenziato come in tuti questi casi i giudici argomentassero la propria decisione utilizzando come base giuridica o la violazione di un diritto di proprietà. Ad uno sguardo più attento però, ciò che veniva protetto non era un diritto di proprietà, ma qualcos’altro. Ed è proprio qui che le cose si fanno interessanti, e dove emerge l’incisività del pensiero di questi due grandi, anzi, enormi giuristi. Di fatti questa argomentazione verrà ripresa in tutti gli altri ordinamenti moderni, dimostrandone la lungimiranza.
Warren e Brandeis individuano alla radice delle decisioni giudiziarie un diritto autonomo, diverso dal diritto di proprietà. Si tratta proprio del “Right to Privacy”. Si tratta di un diritto non esplicitato in alcuna legge, ma la cui presenza è desumibile dai principi generali dell’ordinamento, come ad esempio dal 4° emendamento alla costituzione degli Stati Uniti d’America, il quale proteggendo il domicilio (in senso lato) dell’individuo da “unreasonable searches” intende proteggere non solo il diritto di proprietà, ma quella sfera di intimità necessaria per consentire all’individuo di autodeterminarsi, la quale deve rimanere estranea dall’ingerenza dei poteri statali, tranne che per pochi e ben definiti casi, in determinate condizioni.
Il discorso potrebbe sembrare complesso, ma per chiarirlo ci viene in aiuto un caso menzionato proprio dagli autori nell’articolo: il caso Prince Albert vs Strange. In sostanza era successo che tale Mr. Strange avesse pubblicato una sorta di commentario contenente la descrizione di alcune incisioni di proprietà dell’allora principe Albert. La corte condanna Strange al risarcimento dei danni per aver pubblicato notizie su un bene di proprietà del principe, senza il suo consenso. E ciò indipendentemente da una potenziale lesione alla dignità de suo proprietario. Ciò che veniva punito di fatto era l’aver reso pubbliche delle informazioni il cui titolare voleva che rimanessero private. Ma cosa c’entra il diritto di proprietà? Non c’è stata infatti nessuna illiceità nel modo in cui quelle informazioni erano state collezionate, e non c’era neanche stato un danno alle incisioni stesse. Diventa così evidente che la tutela del diritto di proprietà era soltanto un espediente per proteggere qualcosa d’altro, ovvero il diritto ad essere lasciati soli.
Una volta dimostrata l’esistenza del “Right to be let Alone”, gli autori procedono a definirne l’ampiezza. Presentano così 6 limiti:
1. Anzitutto questo diritto non può limitare la pubblicazione di notizie di interesse generale. Gli autori riconoscono come una ampiezza eccessiva del diritto alla privacy potrebbe confliggere con altre istanze da proteggere, come sono quelle della popolazione ad essere edotta di particolari avvenimenti, anche contro la volontà di chi ne è oggetto. E ciò vale soprattutto quando il soggetto danneggiato ricopra cariche pubbliche o quasi pubbliche. Qui la violazione della privacy è giustificata proprio dalla delicatezza del ruolo ricoperto. Ciò detto però devono sempre rimanere sotto la copertura della privacy tute quelle informazioni che concernono la vita privata, le abitudini ed i comportamenti che non hanno alcun collegamento con la idoneità di ricoprire un ufficio pubblico o posizioni simili. L’esempio di scuola riguarda le condotte sessuali. In definitiva dunque bisogna ammettere un bilanciamento tra gli interessi sociali e la riservatezza dell’individuo
2. Il diritto alla riservatezza non proibisce la pubblicazione delle comunicazioni che sarebbero considerate “comunicazioni privilegiate” ai sensi della legge sull’ingiuria e la diffamazione. In generale basta dire che il diritto alla privacy non viene leso dalle comunicazioni di corpi legislativi, giudiziari, e in qualche modo rappresentativi. Ad esempio, se per tutelare un altro mio diritto di credito sono costretto a pubblicare una lettera in cui la mia controparte ammette di avere un debito nei miei confronti, potrò usare questa lettera come prova, anche se la mia controparte non vuole.
3. Al punto tre Warren e Brandeis sostengono che la legge non dovrebbe garantire alcuna tutela, nel caso in cui il diritto alla riservatezza viene violato in forma orale, tranne ove ci si trovi di fronte ad un danno di eccezionale gravità. Si vuole così evitare che la legge si occupi di condotte poco lesive, che ingesserebbero l’ordinamento.
4. Il consenso del titolare del suo diritto fa cessare la protezione del diritto alla riservatezza
5. La violazione del diritto è indipendente dalla veridicità dell’informazione comunicata
6. La mala fede di chi compie la comunicazione non è necessaria per configurare la violazione del diritto.
In conclusione quindi, Warren e Brandeis sostengono non solo che il diritto ad essere lasciati soli, alla privacy o alla riservatezza esiste, ma anche che questo si pone a fondamento di importanti disposizioni dell’ordinamento statunitense, ma si potrebbe dire in generale degli ordinamenti moderni. Il diritto alla riservatezza viene visto come un modo per proteggere l’individuo da ingerenze non volute nella sua intimità, e ciò sia da parte dello Stato, che di altri privati. Inoltre, esistono 6 limiti all’estensione di questo diritto, che consentono al giudice di calarlo nella concretezza dei casi specifici, bilanciando gli interessi del singolo e quelli della collettività